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L’Argonauta – Milton Fernández

“L’Argonauta” è il titolo che Milton Fernández sceglie per il suo romanzo, proprio a sottolineare la posizione di eterni navigatori che tutti i personaggi del testo sembrano incarnare e vivere nella loro condizione di esiliati.
Lo scrittore, uruguaiano di nascita e in Italia dal 1982, rievoca il periodo feroce della dittatura militare, durata in Uruguay dal 1973 al 1985, attraverso le scelte politiche di Estela, giovane militante di sinistra che porterà alla realtà dell’esilio Julio, protagonista e voce narrante del testo in continua lotta con se stesso, non tanto per un problema di identità scissa, ma a causa della propria presa di coscienza in divenire. Egli rappresenta quella generazione di giovani fuggiti da un contesto sociale disumano che, nella sopravvivenza dell’esilio, continuano a soffrire a causa della memoria che li insegue, li chiama e non li lascia vivere: “Ecco, il telefono, appunto. Questa presenza opprimente, molesta che non ci permette di tagliare neppure uno dei dannati ponti, di bruciare le navi, di dare la schiena al tempo consumato, stantio, alle cose che avremmo voluto non vedere mai, alle parole di cui avremmo fatto volentieri a meno…”
Il tema della memoria ci riconduce, inevitabilmente, al tema della paura così fortemente presente in questo testo che giunge ad indurre dolore fisico al protagonista e che viene visualizzato e descritto con straordinaria ricercatezza; alcune volte, quindi, la paura ti può affogare e può stringere lo stomaco in una morsa o ti blocca e ti annulla come essere umano, ma altre volte si spinge al di là del decifrabile e del comprensibile: “La paura è la sintesi di se stessa, il proprio clone, un’immagine sdoppiata. Paura della paura. Paura di cedere alla paura. Paura di vincere la paura

Il libro si conclude con un nuovo dilemma per il protagonista; dopo la gioia dell’annuncio della fine della dittatura in Uruguay, bisogna fare la scelta se restare in un paese dove si è e si sarà sempre ospiti o ritornare in una terra idealizzata che, probabilmente, si è trasformata diventando, per alcuni aspetti, una terra sconosciuta. Ed ecco qui uscire fuori tutte le incertezze e le paure di questa generazione di giovani che mai avrebbero creduto che il pensiero del ritorno potesse essere così doloroso e che, forse per la prima volta nella loro vita, si trovano a dover prendere una decisione non dettata dalla necessità di sopravvivenza: “Ci si ritrovava fragili e sperduti, come non avremmo mai immaginato, con l’ansia di non essere più all’altezza, un senso diffuso di inutilità… il timore di non essere più capaci di adattarci ai cambiamenti.” Ed il nostro protagonista sembra fare proprie queste sensazioni ed incarnare fino in fondo l’impossibilità e l’incapacità del ritorno, tradotte dalla crudeltà e drammaticità di un atto estremo, per cancellare il passato ed il suo paese e dalla presa di coscienza della sua “non appartenenza” a nessuna realtà e a nessun luogo…

Dalla recensione di Francesca Chiarla

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