Descrizione prodotto
I gemelli non tornarono a riprendere le mogli, camminarono verso il centro della pista e si misero l’uno di fronte all’altro, la mano sinistra di Pepe prese la destra di Torello, quella sinistra allacciò l’altro e partirono. Forse in quel momento convalidavano quella fratellanza di inutile coraggio che tramandarono senza parole disegnando in aria segni che si componevano e che tornavano a disfarsi trasportati da un vento segreto. Gli stivali neri strisciavano, graffiavano, giravano sul tacco presuntuoso replicando ai gemiti del bandoneón. Gancho, finta e partenza. Non appena Greco ritornò alla tonalità in minore il cambio avvenne con la velocità di un lampo e fu Torello allora che cominciò a guidare, altri incroci violenti, convulsioni, colpo di tacco e cambio di fronte. L’applauso finale fu come il rinchiudersi di una porta. I ballerini si guardarono immobili, gli occhi negli occhi, l’alito di tabacco e alcol era uno solo. Qualcuno immaginò che quel voluto isolamento dei visi fosse un voler cancellare le urla, gli applausi, il mondo esteriore, o forse era soltanto un’illusione tremolante favorita dalla luce incerta delle lampade. Si sciolse l’abbraccio, i due si indirizzarono verso il bancone attorniato da uomini e odori scatenati. Il ballo ricominciò ma nessuno riusciva a staccare gli occhi dalla coppia in nero che beveva al bancone con lo sguardo fisso in un punto al di là del muro.
***
Ci sono scrittori che a furia di girare mondi (che finiscono fatalmente per assomigliarsi), si ritrovano un giorno con una lingua tra le mani assai diversa di quella con cui avevano iniziato il viaggio. Succede. Anche i bagagli appaiono tutti uguali dopo l’ennesimo sbarco.
Ci sono altri per i quali quella lingua di partenza costituisce l’unico elemento che non sono disposti a barattare, perché in qualsiasi latitudine si trovino, continua a segnare i tempi di un sentire
sul quale un giorno piantarono bandiera, una patria che si portano caparbiamente dentro, dalla quale nessuno potrà mai cacciarli via. E’ successo a Gelman, a Cortàzar. Succede anche a Marcelo Caracoche.
La sua “deplorevole” condizione di argentino, per dirla con una battuta di Borges, nella quale confluiscono tutte le condizioni della creazione, il suo universo sonoro, l’intero campionario del sentire di un’umanità che un giorno si mise in viaggio e si illuse di essere arrivata alla terra promessa.
Caracoche ci invita con un gesto, un cenno quasi impercettibile della testa, a prendere posto in mezzo alla pista, a farci condurre all’interno di un mondo che credevamo di conoscere e nel quale, scopriremo, siamo sempre rimasti sull’uscio della porta.
Questo libro è, pressappoco questo, un viaggio all’interno di altri viaggi, che non troveranno mai fine. Tra “milongas” e “peringundines”, “cortes” e “quebradas”, lupanari e alberghi a cinque stelle, codici dell’onore e del disonore, i sentieri sottili come lame della passione e della morte. E quel selciato, poi, appena rischiarato dalla luce fioca di un lampione, sul quale lasciarsi portare, cullati dal respiro affannoso di un bandoneòn, in una dimensione finora soltanto sfiorata.
L’era del Tango, appunto.
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